La
sezione quarta del Consiglio di Stato nella sentenza n. 7442/2021 pubblicata
il 9 novembre 2021, afferma che la normativa sull’equo compenso “sta a
significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba
necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione
l’ulteriore (e assai diverso corollario) che lo stesso debba essere sempre
previsto (a meno di non sostenere, anche in questo caso, che non vi possa
essere alcuno spazio per la prestazione di attività gratuite o liberali da
parte dei liberi professionisti)”.
L’art.
13-bis, comma 3, della legge n. 247/2012, inserito dall’art 19-quaterdecies del
d.l. n. 148/ 2017, prevede che “La pubblica amministrazione, in attuazione dei
princìpi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività,
garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese
dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto”. In proposito, il
Consiglio di Stato osserva che il riferimento soggettivo previsto
dall’art. 13-bis cit. alla “pubblica amministrazione” e quello oggettivo agli
“incarichi conferiti” stanno piuttosto a significare - a tutela del
professionista - che il compenso deve essere equo e che l’interesse privato non
può essere sacrificato rispetto a quello pubblico e generale fino al punto di
travalicare – nel bilanciamento dei contrapposti interessi - l’equità della
remunerazione.
La
disposizione non esclude il (e nemmeno implica la rinuncia al) potere di
disposizione dell’interessato, che resta libero di rinunciare al compenso –
qualunque esso sia, anche indipendentemente dalla equità dello stesso – allo
scopo di perseguire od ottenere vantaggi indiretti o addirittura senza
vantaggio alcuno, nemmeno indiretto, come tipicamente accade nelle prestazioni
liberali (donazioni o liberalità indirette).
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