Con
la sentenza n. 16 depositata il 26 febbraio 2015, la Corte Costituzionale ha
dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale:
- dell’art. 9 della legge della Regione
Marche 18 marzo 2014, n. 3, nella parte in cui esclude a priori e, in via
generale, dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti alcuni
residui vegetali (paglia; stoppie; materiale vegetale derivante da colture
erbacee ed arboree, e dalla distruzione di erbe infestanti, rovi o simili;
altro materiale agricolo e forestale naturale non pericoloso) sottoposti ad
abbruciamento;
- dell’art. 2 della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 28 marzo 2014, n. 5 promosse dal Presidente del Consiglio
dei ministri. , nella parte in cui esclude a priori e, in via generale,
dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti alcuni residui
vegetali (residui ligno-cellulosici derivanti da attività selvicolturali, da
potature, ripuliture o da altri interventi agricoli e forestali), sottoposti a
rilascio, triturazione o abbruciamento in loco, ad alcune condizioni – ossia:
a) il trattamento avvenga entro 250 metri dal luogo di produzione; b) il
materiale triturato e le ceneri siano reimpiegate nel ciclo colturale, tramite
distribuzione, come sostanze concimanti o ammendanti; c) lo spessore del
materiale distribuito non superi i 15 centimetri nel caso della triturazione e
i 5 centimetri nel caso delle ceneri.
Secondo
la Consulta le questioni non sono fondate. Ricostruendo sommariamente
l’evoluzione del quadro normativo sul tema, la Corte costituzionale ricorda che
ai sensi di quanto originariamente
stabilito dal codice dell’ambiente (decreto legislativo n. 152 del 2006), erano
esclusi dall’ambito dell’applicazione della disciplina della gestione dei
rifiuti soltanto «le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed
altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nelle attività agricole ed in
particolare i materiali litoidi o vegetali e le terre da coltivazione, anche
sotto forma di fanghi, provenienti dalla pulizia e dal lavaggio dei prodotti
vegetali riutilizzati nelle normali pratiche agricole e di conduzione dei fondi
rustici, anche dopo trattamento in impianti aziendali ed interaziendali
agricoli che riducano i carichi inquinanti e potenzialmente patogeni dei
materiali di partenza» (art. 185, comma 1, lettera e), del testo originario del
d.lgs. n. 152 del 2006). Nella vigenza di tale normativa, la Corte di
cassazione (terza sezione penale, sentenza 4 novembre 2008, n. 46213) aveva
ritenuto che l’eliminazione, mediante incenerimento, dei rami degli alberi
tagliati fosse da considerarsi illecita, non potendo essere qualificata come
una forma di utilizzazione di tali materiali nell’ambito di un’attività
produttiva.
Il quadro normativo è
mutato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 3 dicembre
2010, n. 205 (Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e
che abroga alcune direttive),
il cui art. 13, riscrivendo integralmente l’art. 185 del codice dell’ambiente –
e riprendendo letteralmente quanto stabilito dall’art. 2, paragrafo 2, lettera
f), della direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio – ha
previsto, al comma 1, lettera f), che dall’applicazione della disciplina sui
rifiuti sono escluse, tra l’altro, «le materie fecali, se non contemplate dal
comma 2, lettera b), paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo
o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella
selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi
o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute
umana». Alla luce di questo nuovo quadro normativo, è mutata altresì la
giurisprudenza di legittimità. Sempre la terza sezione penale della Corte di
cassazione (sentenza 7 marzo 2013, n. 16474) ha, infatti, ritenuto che la
combustione degli sfalci e dei residui da potatura, ove non abbia determinato
un danno per l’ambiente o messo in pericolo la salute umana, rientri nella
normale pratica agricola: dunque, i materiali relativi devono essere esclusi
dal novero dei rifiuti.
Nonostante
l’avallo della Corte di cassazione, la suddetta interpretazione è stata
contraddetta dalle «Linee guida
dell’attività operativa 2013» del Corpo forestale dello Stato, dettate con
nota del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del 10
aprile 2013, prot. n. 458. In esse, pur dandosi conto dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 205 del 2010, se ne propone una interpretazione volta a sminuirne
il contenuto innovativo, stabilendo che, salvo che vi sia un utilizzo in
agricoltura o per la produzione di energia, «la combustione sul campo di
rifiuti vegetali configura reato di illecito smaltimento dei rifiuti,
sanzionato penalmente» dall’art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006.
La
Corte costituzionale rimarca ancora che recentemente
anche il legislatore statale è intervenuto sulla materia, con l’art. 14, comma
8, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 (Disposizioni urgenti
per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico
dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle
imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché
per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto
2014, n. 116. Tale disposizione esplicita, con una novella al codice
dell’ambiente, che «[l]e attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei
materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel
luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività
di gestione dei rifiuti» (art. 182, comma 6-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006).
Al tempo stesso, il legislatore statale ha vietato la combustione di residui
vegetali agricoli «[n]ei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi,
dichiarati dalle regioni» e ha attribuito ai comuni e alle altre
amministrazioni competenti in materia ambientale «la facoltà di sospendere,
differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma
all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche
o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano
derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con
particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili
(PM10)».
Con
un ulteriore intervento di coordinamento, sempre ad opera del decreto-legge n.
91 del 2014, come convertito si è, inoltre, disposto – novellando l’art. 256-bis del codice dell’ambiente, che era stato
inserito dall’art. 3, comma 1 del decreto-legge 10 dicembre 2013, n. 136
(Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali
ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1 della legge 6 febbraio 2014, n. 6 –,
che la disciplina sulla combustione illecita dei rifiuti non si applica
«all’abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato
da verde pubblico o privato» e che resta fermo «quanto previsto dall’art. 182,
comma 6-bis» del medesimo codice dell’ambiente (comma introdotto dal già
ricordato decreto-legge n. 91 del 2014, come convertito).
Alla
luce di quanto fin qui esposto, secondo
la Corte costituzionale appare chiaro che, come attestato a più riprese dalla Corte
di Cassazione (oltre alle già citate sentenze, si veda, ancor più
esplicitamente, terza sezione penale, sentenza 7 gennaio 2015, n. 76), l’art.
185, comma 1, lettera f), del codice dell’ambiente (e quindi anche le
corrispondenti disposizioni della direttiva n. 2008/98/CE) consentiva – pure
anteriormente all’introduzione del comma 6-bis all’art. 182 da ultimo ricordata
– di annoverare tra le attività escluse dall’ambito di applicazione della
normativa sui rifiuti l’abbruciamento in loco dei residui vegetali, considerato
ordinaria pratica applicata in agricoltura e nella selvicoltura.
Peraltro,
conclude la Consulta, dato che attiene alla «tutela dell’ambiente», di
competenza esclusiva dello Stato, la definizione degli ambiti di applicazione
della normativa sui rifiuti, oltre i quali può legittimamente dispiegarsi la
competenza regionale nella materia «agricoltura e foreste», restano fermi i vincoli posti dal sopravvenuto
comma 6-bis dell’art. 182 del codice dell’ambiente al fine di assicurare che
l’abbruciamento dei residui vegetali in agricoltura – in conformità del resto a
quanto stabilito dalla normativa dell’Unione europea – non danneggi l’ambiente
o metta in pericolo la salute umana.
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